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POESIE DI CLAUDIO VICARIO



IL TEMPO
Il tempo, a volte,
è come una goccia del mare
piena di slanci perduti,
dimenticati, accartocciati,
che corre dietro
questo mio cercarti
Immagine tratta dal web
senza capirne il senso:
si perde sempre
se si cerca l’amore
quando la primavera non torna,
né basta il miraggio
di una persiana chiusa
per far filtrare la luce
nel plumbeo riflesso
di colori divelti
dalle radici dei timori,
né c’è rugiada
nell’abisso delle emozioni
tra ciechi passi
grigi come il pensiero
a sbiancar le memorie
di un cimitero sulla collina
dai candidi marmi scoloriti
ove si posa lo sguardo,
inconscio ed immutabile,
di inattuale saggezza
nell’impulso di dissolvere
fallaci utopie
che negano simboli passati
.


IL MIO CAMMINO SENZA SOSTA
(Claudio Vicario)

Immagine tratta dal web
Gli occhi miei, stanchi di seguirmi
nel mio cammino senza sosta,
non si chiudono al riposo
e rimango ad ascoltare in silenzio
il mio respiro lento mentre tutto tace.
Le mie labbra cercano una fonte
che ancor non mi disseta,
né so come si chiama il vento,
né dove nasce, né dove arriva,
né perché sta correndo.
Tendo le mani senza sfiorare il cielo
e così riesco a tornare alla terra
in un infinito che ha in sé qualcosa
che solo l'anima riesce a carpire
nei momenti che riempiono la vita,
quasi fosse l’alito di un sospiro
mentre un sogno si dissolve.
Qui, tra la città silenziosa
e il ticchettio della pioggia sulle strade,
cammino senza sosta
col sapore del passato sulla pelle
ancora così intenso e forte,
puro, arido specchio d’acqua
nello svuotato secchio senza fondo,
quasi riflesso di un ultimo saluto.
Crollano le parole senza senso
nella mattina arida e fredda,
simili a macerie di variegato mosaico,
e fisso il mio pensiero nel sentire
generarsi il fruscio della morte
per poi scivolare oltre quel bordo
ove si spegne il sole.
Solo, di gelo colmo, l’animo assente,
lasciato tutto ciò ch’è spento dentro,
ascolto l’eco di un lontano addio,
giro le spalle né mi volto indietro,
e riprendo il mio cammino
tra fioche luci e inanimati sassi
lungo il confine della consumata via
in un continuo moto senza fine
per possedere il mondo e l’orizzonte
che mare e cielo da sempre hanno diviso
il cui riflesso svanisce e poi ritorna
come la luna, in infinito spazio,
dietro l’oscuro monte e le deserte spiagge
e ascolto i miei pesanti passi
in questo interminabile cammino
senza più meta alcuna.


A MIA MADRE

Sto scavando nella mia anima
Imamgine tratta dal web

per trarne
un raggio di luce
che si trasformi in versi
per un ultimo mio canto.
Cerco invano parole
che siano vera poesia,
ma non trovo altro che
un deserto infinito, immobile
nello spazio e nel tempo,
un tempo che per me si è fermato
quel giorno, quel quattro di luglio,
quando sei tornata alla terra,
tra le braccia buie e fredde
dell’ultima tua madre,
ultima ed anche prima.
Mi aggiro inutilmente,
muto, in questo deserto arido,
pietrificato come i miei sentimenti,
fatto di sassi appuntiti,
taglienti come pugnali
e di sterpi contorti, spinosi,
prosciugati da un sole
che non emette più luce,
un sole nero come la morte
che ti ha portata via,
che ha risucchiato nel nulla
te, ch’eri una fronda al vento.
E in mezzo a questo deserto
io vago cercando invano
una sorgente d’acqua pura, fresca,
che possa dissetarmi e dare un senso,
un significato, anche se illusorio,
al silenzio che mi circonda,
vorrei, ancora per una volta,
udire la tua voce,
ma non odo che il nulla.


RISORGE ANCORA

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Risorge ancora l’emulo rapace
che sorvola, coglie nuove storie,
e cavalca con la fantasia i pensieri
rappresentazioni visibili del Divino,
sirene ammaliatrici per i naviganti.
Un bosco prende vita con i rami
che galoppano una realtà mai cercata
alla cui folta chioma rimango aggrappato
mentre, su un urlo disperato e impotente,
mi volto cercando brandelli di lucidità,
e immagino di salire pian piano in cielo
o in un angolo scolpito nell'umano recesso
di specchiate bifore dai discussi riflessi
tra mutismi urlati da mistici inconsci
privi di superbia e arroganza;
le distanze fuggono su onde di luce
che scompigliano le nostre coscienze
quasi in simbiosi con rami legnosi.


UDII UNA VOCE

Tra cupe forre
Immagine tratta dal web

serrate da pareti di roccia nuda
chiazzate a tratti
da macchie scure di terriccio
odoroso di muschio;
tra innumeri querce
generose di rame e foglie
agl’implumi dei nidi nuovi;
tra rovi pungenti
in siepi infinite
punteggiate di more selvagge;
tra larici, abeti e mirti e l’acuto
olezzar dei ciclamini,
e il fresco profumar d’erbe non tocche,
e il chioccolar sommesso
tra smeraldine sponde
d’una linfa d’argento,
tenue carezza danzante
sui sassi muscosi,
e il sospirar delle fronde
appena mosse
dall’invisibile mano insidiosa
del vento,
udii un giorno
levarsi possente una voce:
“Qui regna Iddio!”

Sussultai,
Immagine tratta dal web

e le mie fibre tremarono.
E andai, andai
come automa ch’altro non oda
che la voce interiore
e il canto misterioso
della natura che vive.
Scesi sui campi
ondeggianti di messi odorose,
tra chiazze chiare
di ulivi d’argento
dai miseri tronchi incavati,
inverosimili esempi d’anime generose,
tra lunghi pendagli di pampini
fùmidi di tenue rugiada,
tra alberi ricchi di molteplice frutta,
che tutto davano di sé
ne le gagliarde braccia tese
a prodigar doni,
tra il tenue pigolare innocente
di piccoli esseri
paghi dell’ombra di una fronda
e qualche grano
dolce dell’amor d’una madre,
e udii una voce:
“Qui regna Iddio!”

E andai, andai ancora:
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lambii col piede
l’acque dorate del fiume;
sfiorai l’aspre
sabbie d’argento,
volai sui prati di velluto
costellati di rustiche margherite,
su terreni palustri,
su Oceani sterminati,
nell’immenso infinito fragore
delle onde irrequiete
schiaffeggiate
dalla pazza furia del vento,
e udii una voce:
“Qui regna Iddio!”

E venne la sera.
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E intorno scesero
tremolanti di paura e pensosi
di sogni
i fantasmi della notte:
vagarono un poco danzanti
nel crepuscolo soffuso di pace,
poi si posarono,
come l’inesorabile artiglio della morte
implacabili su tutte
le cose.
Guardai in alto, lassù,
ne l’immenso lenzuolo
ricamato di stelle…..
E dall’alto, come portata
sull’ali misteriose del vento,
una voce mi toccò
con mano di fuoco:
“Qui regna Iddio!”

Infinito, incomparabile mistero
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dell’Universo!
Nulla io dissi,
ma mi aprii alla vita.
E andai ancora, andai
per le turbinose strade
dell’uomo,
tra la tumultuosa incessante folle
corsa delle macchine
dal cuore d’acciaio,
e una voce insistente
metallica, cupa
gridò:
“Qui regna l’uomo!”

Cieco uomo!
Perduto nel vortice
della vacuità della vita,
altro non chiedi
che la gioia dell’oggi
e tutto vuoi per te,
a tutto agogni, e ridi
dei mali altrui o non ti curi
e sogghigni
sulle bare che passano,
e inganni il fratello,
e rubi la pace altrui, e tradisci
l’amico, e porti guerra,
e stermini, e uccidi…..
Cieco uomo!
Ch’entro le caduche spoglie
della vita che passa
freme eterno uno spirito,
un qualche cosa
che sfugge al comune sentir
perché, l’Eterno,
solo a chi sa guardare
è destinato.


A GRETA GARBO

Quanto era bella:
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una fiore di nebbia e di rugiada
in una notte fredda,
un sospiro di seta rosa
in un brivido caldo che cade.
La sua pelle tremula
placava il dorso del mare
ed un alito del vento
era l'attimo del tempo che fugge.
Muto, mi perdo su spiagge distanti
mentre guardo le stelle
come se non le avessi mai viste
e non riesco a trovare le parole
quasi si fossero fermate
senza passare attraverso la luce
per un silenzio ucciso.





A LUCIO DALLA

Lucio,
piccolo, dolce ragnetto peloso,
gigante della canzone,
che bello scherzo ci hai fatto!
Te ne sei andato, così,
all’improvviso,
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in silenzio,
in punta di piedi
per non farti sentire,
senza salutare quelli che ti amavano,
e ti amavano in tanti,
ma sei stato generoso come pochi,
ci hai lasciato le tue canzoni
che ci hanno emozionato
con la tua musica,
con la tua poesia
dolce e triste
che racconta la tua vita
da quel “4 marzo 1943”,
di quella mamma bambina
di sedici anni
con la gonna sempre più corta
mentre tu cercavi un fiore,
una piccola radice
per dare un senso
alla tua vita,
tu, solo e senza dimora,
con la tua solitudine
che è stata la tua croce,
una croce
troppo pesante da portare
sulle tue piccole e fragili spalle,
mentre proseguivi
per la tua strada
senza un lamento,
errabondo,
e scrivevi
a un “caro amico lontano”
per distrarti un po’
e ti stupivi per
“com’è profondo il mare”
vivendo la tua emozione
“là dove il mare luccica
e tira forte il vento”
da una vecchia terrazza
“nel golfo di Surriento”
e dicevi ai bambini
“attenti al lupo”
forse perché quel lupo
a te aveva fatto tanto male,
forse perché quel lupo
ti ha ucciso tante volte,
ma tu altrettante volte
sei risorto,
ma forse quel lupo
era soltanto un ululato,
il tuo ululato di lupo ferito
che nessuno riusciva ad udire,
un ululato sordo,
pesante come una pietra
che usciva dal tuo grande cuore.
Lucio, ci hai lasciati
ma con te non è morta
la tua musica e la tua poesia.



A MIO PADRE

Pallida artigliata Atropo,
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cessa il feroce ghigno
con cui hai reciso il filo
del suo fisico essere:
tu non hai vinto!
Or, niveo, nel suo candore,
come acqua cristallina
centellinando scende dalla roccia,
privo del materiale sensibile
del fisico possesso,
ma col pieno dominio
dell’essenza prima dell’essere,
m’illumina e incoraggia
nel doloroso gemere
inconsolato,
ché di lui vivo
sempre è il rimpianto;
e parmi strano
che, pur non più essendo,
tripudiante
tutto viva d’intorno
in questa primavera
che per me non ritorna,
sì come l’onda
sull’annegato corpo
chiudesi
e lieta
il suo corso continua
verso il mare
ove tutto s’annega.
Ho ripensato a mio padre
mentre la pioggia,
tenera,
mi ha fatto compagnia
tutta la notte.
L’ho udita
dal mio letto nel silenzio
battere forte
contro vetri e mura
e mi son detto:
questa musica stessa che io odo
certo pur egli sente
batter cantando sopra la tastiera
del freddo marmo
che a morte somiglia.
E l’udir questa musica ineguale,
or scherzosa, ora lenta,
ora maestosa e grave,
come prodotta
da nascosta arpa
da invisibili dita pizzicata,
certo ci unisce
pur se distesi
in luoghi sì diversi
ché la soglia
di morte ne disgiunge
per quel veleno
dell’obbrobrioso serpe
che sull’inerme umanità propina.




O DOLCE NOTTE

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Il murmure selvaggio
delle fronde novelle
sposate
all’ombra gentile
del crepuscolo
a volte mi parla, mi chiama,
mi sussurra,
incomprensibili voci
che ascolto
e non riesco a capire.
Tremano, delicate fronde,
col sospirar del vento, che passa,
passa leggero
su l’erbe flessuose.
Tremano, come se dal vento
rapissero
un’arpa che vibri,
un cuore che palpiti,
come se del vento
avessero paura.
Nasce la luna, delicata luna,
tenera come una culla:
incanti, sogni di pace
infinita.
Nasce, ora si vede,
ora s’occulta
dietro una nube che passa.
Sale, sale, saltella tra i rami,
scompare, ritorna,
scompare di nuovo
dietro il folto intreccio
del bosco,
quasi giocando
come un biondo monello
coi rami gentili
dei pioppi eloquenti.
Sale,
sale leggera,
come una sfera
di soffice tela sottile
ricolma di luce;
silenziosa come una madre
accanto alla culla
del suo piccolino.
Senti, o notte,
sotto i tuoi piccoli piedi,
scuri nell’ombra,
l’erba tenera, rugiadosa,
già stilla
gocciole d’argento
su ogni filo….
E tu scivoli,
dolce notte,
sul fresco tappeto
soffuso come di pianto,
che intreccia, col vento
che palpita,
una danza nuova
sull’ali
d’una musica
che ora nasce, ora muore,
col sospiro dell’aria,
su suoni,
di inverosimili note
d’un pentagramma,
che si rincorrono
in trilli, armonie,
lamenti, dolci sospiri….
Scivoli, o notte,
su l’erbe
baciate dalla luna,
scherzando con passi flessuosi
d’eterna fanciulla,
posando il piede leggero
sui teneri steli,
e i tuoi veli,
aliàndo
come invisibili piume
turbate dal vento,
volano ovunque, nel giuoco
della luce nell’ombra,
dell’ombra nella luce,
della musica nel silenzio,
tra lùcubri spire
di pace, sognante sospiri
d’amore,
in un palpito che sa di mistero.
O notte,
chiedi all’erbe
un serto di perle,
alla luna
il biondo pallore
pel tuo volto di bruna gitana,
e alle stelle un diadema:
o dolce notte,
diventa regina.
Affoga il tuo corpo flessuoso
nel giunco che odora,
ne l’ombra di te stessa,
perditi, misteriosa,
tra i casolari sonnolenti,
tra i rami
degli alberi antichi,
diventa ombra e luce:
o dolce notte,
diventa poesia….




LU FESTON' A GROTTAMINARDA

E mo’ vene lu Feston’,
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tutt’ Aust’ è già passat’,
stamm’ allegr’, stamm’ buon’,
ce vulim’ cunzula’.

Mo’ furnisc’ la staggione,
li Ruttis’ fann’ fest’,
ogni juorn’ è sempe bbuone,
nun putime arrefenà.

Cicatiell’ cu lu fort’,
capecuoll’ e mugliatiell’,
ognirun’ chiur’ ‘e pport’
e se sap’ organizza’.

Quann’è festa, si nun chiov’,
mprufumat’ e allecchettat’,
ncopp’ a chella chiazza nov’,
te puo’ metter’ a ballà.

C’è la musica in paese,
ognerun’ va a la fest’,
quacch’ vecchia va a la cchiese,
s’addenocchia pe’ pria’.

Mursellett’ e mustacciuol’,
la cupeta e li tarall',
nzerre ‘ tutt’ ca ‘e mariuol’
po’ t’ viennen’a arrubbà.

Va a la festa, nun fa’ ‘o fess’,
ca lu tiemp’ passa e va,
jess’ for’, nun fa ‘o fess’,
e vattenn’ a passia’,

ca po’ ven’ la vernata,
chiov’, jocca, e votta vient’.
Cum’ pass’ la jurnata ?
Tu respunn’: “Adda passà”.


NOI DOWN

Noi Down siamo
la parte buona dell’umanità:
non ricopriamo cariche importanti,
non corrompiamo
né ci lasciamo corrompere,
non facciamo del male a nessuno,
possiamo fare la comunione
senza confessarci
perché non pecchiamo.
Noi Down,
i cui occhi si illuminano
per un bacio della mamma,
per una carezza del papà,
per un sorriso sincero,
vorremmo dire
a coloro che ci ritengono idioti,
che ci sbeffeggiano,
che ci scacciano
e anche a quei pochi
che hanno compassione per noi,
che non sanno che per noi
il buon Dio
ha riservato un posto in prima fila
in Paradiso.

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