LA
VOCE DEL VENTO
Di: Wanda Moro, Milvia di Michele, Maurizia
Zucchetti, Cecilia Bonazzi
Nessuno ha tanto bisogno
di un sorriso
come colui che ad altri darlo non sa.
Nessuno è così ricco
da poterne fare a meno
….Era
scritto all’entrata di quell’edificio: per ciò entrai nella mia nuova
dimora con il mio vestito più bello e il sorriso migliore che potessi
esprimere.
Mi
accompagnava una signorina che si era presentata come assistente sociale e che
per tutto il viaggio non aveva fatto altro che chiacchierare e chiedermi come
stavo, se mi sentivo bene, se avevo bisogno di qualcosa; avevo annuito ad
ogni sua domanda, perché era l’unica cosa che riuscivo a fare. L’emozione mi
aveva preso la voce e le gambe mi tremavano come fosse il primo giorno di scuola,
o il giorno del matrimonio, o la nascita del primogenito … quanto tempo era
passato !
Ricordavo
perfettamente il primo giorno di scuola, i miei compagni, l’insegnante;
ricordavo che per andare a scuola, ogni giorno percorrevo la strada sterrata
indossando gli zoccoli di legno: che fosse caldo o freddo, che piovesse o ci
fosse il sole o la neve, quelle erano le mie calzature.
Mi
alzavo alle quattro del mattino per aiutare la famiglia nella stalla; finito di
lavorare e fare colazione partivo con il libro e il quaderno sotto braccio e la
matita in tasca e a metà strada, spesso, era già troppo tardi per entrare in
aula.
Ricordavo
che a tavola il più vecchio, il più anziano (il nonno) aveva il diritto di
mangiare per primo; e ora che dovrei essere io ad avere questo diritto …. le
cose sono cambiate.
Le
cose cambiano continuamente …
Ad
accoglierci all’entrata della “Casa di riposo per anziani Villa Valter ed
Eugenia”, c’era una sorridente infermiera che ci accompagnò per una visita
veloce alla struttura: atrio, sala da pranzo, stanze . Nella stanza c’erano due
letti, uno era mio … due comodini, uno era mio … due armadietti, uno era mio …
e un bagno, che non era tutto mio.
L’assistente
mi salutò assicurandomi che sarebbe venuta a trovarmi al più presto per sapere
se mi trovavo bene, come stavo (ancora una volta !) e assicurarsi che tutto
procedesse per il meglio.
Anche
la mia famiglia mi aveva dato le stesse rassicurazioni, spiegandomi che a causa
del lavoro, dei sopraggiunti impegni, dei figli, eccetera, non si fidavano a
lasciare sola in casa una persona anziana che aveva difficoltà a gestirsi. E
poiché, per ogni persona che non è in grado di gestirsi, c’è qualcun altro che
decide, avevano deciso che era ora di trovarmi una sistemazione più adatta alla
mia età.
Ora
mi trovavo dentro una bella e linda stanzetta a due letti,sola con i miei pensieri,
in attesa … Già in attesa di cosa? Di chi?
Intanto
dell’occupante dell’altro letto, così vicino al mio e proprietario
dell’altro comodino.
La
porta si aprì lentamente ed entrò Mariannina, fu allora che la vidi per la
prima volta: una vecchietta con il tuppino dei capelli arrotolati un po’ in
basso, verso la nuca, gli occhi grigio azzurri e uno scialletto incredibilmente
colorato poggiato sulle spalle, fatto con l’uncinetto, con gli avanzi di lana
che le regalavano un po’ tutti.
Mariannina
aveva i lineamenti chiari e sereni, come di chi è in pace con il mondo, come di
chi sa amare perché è stato molto amato.
Ma
io non ero affatto serena, mi crollava il mio mondo, avrei dovuto cambiare
totalmente le mie abitudini e non mi sentivo pronta, finivano le mie certezze.
“Buongiorno !” mi salutò Mariannina;
“Buongiorno”risposi forzando un po’ il sorriso.
“Mi
chiamo Marianna, ma tutti mi conoscono come Mariannina..per via delle mie dimensioni
e della’età…sono la più anziana: ho novant’otto anni,sa !” scandì con un certo
orgoglio la mia compagna di stanza.
“Il
mio nome è…” ebbi un sussulto “…Il mio nome è Margherita”.
“Ah,
Margherita” ripetè felice e rimase in silenzio, in attesa; poi aggiunse “…Non
si preoccupi: poi ci si abitua”.
Poi
ci si abitua…ci si abitua a cosa ? A che cosa ci si abitua, mi chiesi; ci si
abitua alla vita che non è più tua ma gestita da altri che scandiscono ritmi e
orari ?
O
ci si abitua a non avere più nessuno, a guardare fuori dalla finestra in attesa
di chissà chi ?
“Sa,
qui c’è un piccolo parco: qualche panchina, dei tavolini…e le piante…C’è un
bellissimo cedro del libano…lei sa cos’è un cedro del libano ?”.
Annuii,
ne avevo visto uno in fotografia, credo.
“E’
bellissimo, enorme, con rami che vanno ovunque…ed è secolare: ha più di cento
anni, sa…centoquindici per la precisione…anch’io voglio arrivare a
centoquindici anni... anzi, a centoventi: è più rotondo come numero… In estate
il fresco che procura non lo cambierei con nulla al mondo….Poi ci sono anche
altri
alberi
s’intende... come tigli, una quercia…un rovo di biancospino…e lì si nascondono
tanti merli…dovrebbe venire a vederlo il nostro giardino !”
Figuriamoci
! Il nostro giardino !
Qui
niente mi apparteneva , ormai nemmeno più la mia vita; non era così che avevo
previsto la mia vecchiaia. Avrei preferito morire subito, all’istante piuttosto
che arrivare a novant’otto anni suonata e a parlare di alberi con una
sconosciuta, o peggio ancora, superare i cento !
Ma
è la vita che spesso decide per noi, e per me aveva messo in serbo aspettative
che mai avrei immaginato.
Mi
rassegnai a sistemare le mie cose nell’altro comodino, prima dell’ora di cena.
Mi
avevano fatto visitare il refettorio e mi avevano spiegato che si mangiava
sempre alle sette in punto, chi poteva farlo avrebbe consumato il suo pasto lì
dentro, in compagnia degli ospiti più autonomi.
Io
avrei preferito mettermi a letto e non mangiare, dormire e non pensare a
niente!
Tuttavia
mi piace sempre comportarmi da persona educata e mi sembrò scortese restarmene
in camera.
Poi
avevo quel vestito così bello! Mariannina lo ammirò subito:
“Che
bei colori i fiorellini della sua camicetta!” Esclamò con una gioia infantile
che trovai sciocca.
Pensai
(Parla come fosse una bimba, è patetica!)
Ma
Mariannina aveva un sorriso che non faceva affatto compassione, anzi illuminava
le cose e le persone che guardava, come fosse re Mida in gonnella, solo che,
toccando, non trasformava in oro, ma faceva sembrare gli eventi banali pieni di
felicità.
Già, proprio così.....Mariannina mi avrebbe fatto rivedere le
mie aspettative di vita.
In fondo come trascorrevo le mie giornate ?
Ero sola, certo non c'era nessuno che decideva per me, ma allo stesso tempo non c'era nessuno con cui condividere le mie gioie o i miei dolori.
Ora invece ci sarebbe stata lei, Mariannina, che con il suo sorriso e la sua gioia infantile mi avrebbe fatto scoprire come può essere piacevole invecchiare in "compagnia.
In fondo come trascorrevo le mie giornate ?
Ero sola, certo non c'era nessuno che decideva per me, ma allo stesso tempo non c'era nessuno con cui condividere le mie gioie o i miei dolori.
Ora invece ci sarebbe stata lei, Mariannina, che con il suo sorriso e la sua gioia infantile mi avrebbe fatto scoprire come può essere piacevole invecchiare in "compagnia.
Al
momento, però, non ebbi tempo né voglia di capirlo e continuai a sistemare le
mie cose, dividendole tra il comodino e l’armadio. Ogni oggetto tolto dalla
valigia mi riportava ricordi e pensieri dolci, ma sconfinatamente tristi.
Uno
scamiciato, due gonne, una con la sua giacchetta principe di Galles che mettevo
la domenica per andare a messa; due bei grembiuli in cotonina stampata a fiori
colorati, quelli tanto comodi, che amavo tenere in casa, avevano delle tasche
belle grandi dove infilavo di tutto durante il mio trafficare. La camicetta
preferita, invece, quella cucita per la Comunione di Enrico, il mio primo
nipote, quella a fiorellini azzurri e rosa, l’avevo indossata per sentirmi
rassicurata dal ricordo dell’abbraccio in cui si era stropicciata quando lui, quel
giorno, mi si era stretto al collo dicendomi “Nonnina cara, sono tanto felice e
ti voglio tanto bene”.
Il
fatto che Mariannina l’avesse ammirata mi era parso tanto sciocco, avrei capito
in seguito che quella era stata la prima “coccola” di tante che la nostra
amicizia, breve ma intensa, mi avrebbe donato. Quando adagiai la camicia da
notte e la mia vestaglia rosa sul letto, un leggero brivido scorse tra le mie
spalle e la posa del portaritratti con la fotografia, che mi ritraeva con tutta
la mia adorata famiglia, sancì per me l’inizio di quella che sarebbe stata non
la mia ultima avventura, ma bensì l’inizio di una nuova interessante vita
condivisa.
Andai
a cena insieme a Mariannina, che dovette sorreggermi al mio ingresso nella
sala: uno sgradevole odore di cibo d’ospedale riempiva la stanza gremita di
vecchietti petulanti e rumorosi. Nessuno di loro chiacchierava
tranquillamente,c’era un caotico vociare, non riuscivo a distinguere le parole,
sentivo solo richieste o lagnanze. Dovetti farmi forza per non fuggire via e
mangiare la mia minestrina e la mozzarella con contorno di purè di patate.
Mariannina
faceva finta di niente e mi sorrideva, ogni intanto cercava di dirmi qualcosa,
ma era costretta a urlare perché la capissi.
Quello
fu il mio primo giorno trascorso in ospizio, la prima notte poi, la passai con
gli occhi aperti, aspettando un sonno che venne soltanto quasi verso l’alba.
Cercai
di mescolarmi agli altri ospiti nei giorni seguenti, poi mi arresi e iniziai a
restarmene in camera; uscivo solo per i pasti, pranzo e cena; avevo smesso
anche la colazione e la merenda pomeridiana. Era così triste: gente in
carrozzina, altri col treppiedi, altri ancora allettati; molti, anche se
autonomi, guardavano nel vuoto o non capivano affatto quando cercavo di
instaurare un dialogo.
Ogni
giorno c’erano le visite dei parenti, ma alla domenica si affollavano.
Non
mi piaceva quell’affollamento.
Ancora
non riuscivo a fare lunghe conversazioni con Mariannina: non era mai in camera
se non dopo cena, quando si spegnevano le luci e al mattino, quando mi
svegliavo, non c’era già più.
Ma
una mattina la sentii alzarsi, prepararsi ed uscire: non seppi resistere e la
seguii.
La
ritrovai in giardino, seduta sulla panchina sotto il cedro del Libano.
Rimasi
ad osservare per qualche minuto: lei era ferma, apparentemente immobile, lo
sguardo era rivolto lontano, verso un orizzonte che si estendeva oltre i muri
dell’edificio e il volto era rilassato, sereno. Mi avvicinai timidamente e mi
sedetti sulla stessa panchina, cercando di non disturbare.
“Riesce
a sentire ?” disse rivolgendosi a me gentilmente dopo un lungo inspiro.
Sentire
? Non sentivo nessun rumore ed esternai la mia perplessità “Veramente…non sento
nessun rumore”.
“Nemmeno
il canto degli uccellini ?”; beh, sì, quello lo sentivo “Beh, sì…”
“Questo
è un merlo…" disse "...E questo più stridulo è uno storno…e sente?...Sente
questo…picchiettare ?...Questo è un picchio…è lassù, sulla quercia...”.
Breve
silenzio poi riprese: “Di notte si sentono le civette…ci sono dei nidi di
civette…” e a questa affermazione, un brivido mi corse gelido lungo la schiena.
“…Sono bellissime le civette…” riprese”…e animali molto utili !”; non sentivo
in me tutto questo entusiasmo per la presenza delle civette !
“Si
sentono tanti rumori a quest’ora del mattino…” continuò Mariannina “…Qualche
cane abbaia già…” e mi accorsi che, sì, effettivamente un cane stava abbaiando.
Un caso, mi dissi.
“…E
si sente il vento…riesce a sentire il vento ?”. Rimasi in apnea qualche
istante: non riuscivo a sentirlo.
“No”
dissi; ma lei proseguì come se non avesse ascoltato la mia risposta.
“Il
vento dice tante cose”.
Ebbi
un attimo di perplessità: forse sarei dovuta restarmene in camera, mi dissi, ma
mi sforzai.
“E
cosa dice il vento ?” chiesi timidamente.
Mariannina
si voltò verso di me col suo solito sorriso coinvolgente e mi accorsi della
brillantezza dei suoi occhi, pieni di vita e di gioia, ma contemporaneamente
tristi e di una lacrima che le scendeva sul viso.
Ebbi
l’impressione che il cuore mi si fermasse ma accelerò; mi sentii a disagio. Non
chiesi altro.
“Il
vento mi parla…il vento parla a tutti…se si ascolta…e dice tanto…sa quante voci
ha il vento ?...Milioni…ma una in particolare…la riconosco fra tutte…” e non
disse altro.
Rimasi
in ascolto con lei, rispettosa del suo sentire.
Con l’aiuto di Mariannina ripresi fiducia e voglia di vivere. Lei non
parlava molto, ma la sola sua presenza era una sicurezza, un toccasana, una
panacea per tutti i mali.
Feci la conoscenza di tante signore dolcissime, con tanta voglia di
parlare, di esprimersi, di far vedere attraverso le loro poche cose che si
erano portate dietro la loro vita affettiva..e la grande mancanza di coloro che
non avevano più accanto.
In fondo invecchiare è un po’ come tornare bambini: i giochi da mostrare
ai compagni e il desiderio, la necessità della vicinanza dei familiari per
sentirsi protetti e completi.
Perché invecchiando si diventa deboli, fragili, e comunque bisognosi di
affetto, come bambini…e si ha paura, come bambini, di ciò che non si conosce.
Ci si nasconde spesso dietro “perché ai miei tempi” o “i giovani d’oggi”
ma, forse, abbiamo solo perso l’abitudine di chiedere aiuto e riconoscere i
limiti umani dell’età.
Dialogando con gli altri ospiti di “Villa Valter ed Eugenia” mi resi
conto di quante convinzioni induriscono e irrigidiscono la vita di una persona
rendendola debole. Smisi di nascondermi dietro i luoghi comuni e imparai a
chiedere aiuto.
Pian
piano mi abituai.
Come
aveva detto Mariannina, poi ci si abitua.
Ci
si abitua a tutto: all’odore di mensa nella sala da pranzo, al vociare caotico,
alla scomparsa, all’assenza…
Mariannina
morì una notte di ottobre a causa di una polmonite, due settimane prima di
compiere 102 anni.
“Non
mi dispiace sai” mi disse l’ultimo giorno “ anche se non arrivo a centoventi
anni …come volevo “
“Non
affaticarti” le dicevo “cerca di resistere”.
“In
fondo ho vissuto bene…sono stata amata …e ho amato….ho avuto la fortuna di
ritrovare mio figlio…dopo la guerra…di veder nascere e crescere i miei
nipoti…di apprezzare tutto ciò che la vita mi ha dato…e mi ha tolto…Non tutti
hanno la fortuna di arrivare alla mia età…di avere tanti ricordi…belli…e
brutti….perchè se ci sono ricordi belli…posso ringraziare quelli brutti…che me
li hanno fatti vedere…riconoscere…apprezzare…”
Parlava
a fatica, ma non avevo il coraggio di interromperla: era evidente che aveva
bisogno e desiderio di condividere il suo pensiero in quel momento così
importante.
Le
tenevo la mano e dentro di me piangevo, ma ero felice; la sua serenità era
coinvolgente, nonostante l’evidente sofferenza e riusciva a mantenermi
tranquilla come non ero mai stata.
“Sento
il vento”. Era evidente che iniziava a delirare: le finestre eran chiuse e il
riscaldamento acceso.
“…sento
che mi parla…e mi chiama…” tossiva fra una parola e l’altra e la sua fronte
scottava.
“…è
sempre stato …vicino a me…in tutti questi anni…Oldennio…non mi ha mai
abbandonata…nemmeno nei momenti più difficili… nemmeno quando entrò… in quell’
edificio….con gli altri…sempre col suo sorriso…nemmeno ora mi abbandona…lo
sento vicino”.
Chiuse
gli occhi...e si addormentò, serena.
Seppi
in seguito, da uno dei suoi pronipoti che Oldennio era il marito di Mariannina;
furono deportati entrambi ma solo lei potè riabbracciare il figlio scampato al
rastrellamento del ’43.
Disegno di Cecilia Bonazzi |
Nessuno ha tanto bisogno
di un sorriso
come colui che ad altri darlo non sa.
Nessuno è così ricco
da poterne fare a meno.
Ho
imparato a sorridere e ad accogliere con il mio vestito più bello i nuovi
ospiti che in questi venticinque anni si sono avvicendati.
Ho
imparato ad ascoltare il canto degli uccelli (anche quello delle civette); ho
imparato ad ascoltare il vento, ad ascoltare, comunque e chiunque.
Ho
imparato, soprattutto, ad ascoltare me stessa e non ho avuto paura di arrivare
e superare i cento anni, perché ogni momento è una conquista e non farei cambio
con niente e nessuno; perché, come era solita ricordare Mariannina,”Ho
impiegato tempo e sacrifici per metterli tutti assieme questi anni”.
Ecco
cosa dice il vento.
bello, ma mi ha fatto piangere, forse perchè in questo momento sento solo tristezza fuori e dentro me
RispondiEliminaRealistico, non melodrammatico, ma suggestivo.
RispondiElimina