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Favola a più mani:" La paura" di Francesca Barberi - Rossella Ceccarelli - De Gaetano Francesco - Lalla Tosi



LA PAURA
Un tempo il mondo era una fiaba tutto colorato, pulito, allegro e non esisteva la Paura.
I bambini giocavano tranquilli nei prati, correvan di qua e di là ed erano spensierati e sereni. Spesso, anche a tarda sera, li potevi incontrare lontani dalle loro case ad ammirare le stelle, a rincorrersi e saltare allegri finché il sonno non sopraggiungeva.
Ma un brutto bruttissimo giorno tutto cambiò.
C'era chi, nell'ombra, invidiava tutta questa serenità, questa gioia di vivere. Non sopportava i bambini che giocavano, l'allegria generale, la tranquillità.
Era invidioso di tutto e di tutti, odiava il mondo, il creato, le stelle, il sole, gli animali e soprattutto i bambini.
Fu così che iniziò piano piano a risalire dalla profonda caverna, posta al centro della Terra, dove si era rifugiato al momento della creazione del Mondo, per cambiare lo stato delle cose. Cominciò a intrufolarsi nella vita semplice e allegra complicando tutto: i fiori, i prati, i campi furono invasi da cose estranee, ingombranti, puzzolenti, molto brutte a vedersi e fastidiose.
I bambini ebbero sempre meno spazio per correre e giocare, spesso dovevano mettersi perfino un fazzoletto alla bocca per i cattivi odori che si sentivano in giro e sempre più frequentemente preferivano rimanere in casa..... pian piano si intristivano.
Dove erano finite le allegre scorribande e le grida che echeggiavano da una parte all'altra del pianeta?
Mano a mano che i sorrisi scomparivano dal viso della gente, la soddisfazione dell'entità malvagia cresceva. Tuttavia non era ancora totalmente appagata, voleva di più, il suo obiettivo era riuscire a trasformare la gioia in sofferenza.
Si rendeva conto però di non avere il potere necessario per operare un tale sortilegio, infatti, per qualche oscuro motivo, l'allegria che i suoi interventi sembravano annientare, dopo poco tempo tornava a dominare gli animi della gente, che anche in mezzo a tante difficoltà riusciva a sorridere.
Decise allora di richiedere l'aiuto della più subdola e crudele delle creature delle tenebre, la strega Invidia che viveva nel folto della foresta insieme alle sue tre perfide sorelle: Insicurezza, Diffidenza e Gelosia, sempre pronte ad entrare in azione quando c'era da far soffrire qualcuno.
Insieme cominciarono a soffiare forte, e dal loro fiato si formavano ragnatele che andavano a posarsi intorno ai pensieri della gente, svuotandoli. Le ragnatele si facevano sempre più fitte ed assorbivano completamente le idee delle persone.
Nella mente della gente si stava facendo spazio un nuovo sentimento, che prima non conoscevano, una sensazione che sembrava cancellare i colori dal mondo. 
Le persone cominciarono a provare un senso di sgomento davanti agli imprevisti, prima presi serenamente e facilmente superati; ora invece ogni cosa che accadeva, se non prevista, appariva insormontabile. 
Fu allora che un vecchio saggio, che risiedeva in cima ad una grande quercia, si pronunciò dopo anni di meditazione e di silenzio: "Miei cari" disse "c'è chi nell'ombra sta attentando alla nostra serenità e alla nostra gioia di vivere. Egli, essere immondo e senza cuore, sta inculcando in tutti noi un nuovo sentimento prima sconosciuto. Questa nuova sensazione, che identifico col termine PAURA, va accettata come parte di noi stessi. Entro certi limiti la dobbiamo considerare come una componente normale dell'esperienza di vita dell’uomo. Quindi non abbiate timore di affrontarla ed accettarla, solo così vinceremo contro Colui che vuole atterrirci". 
Ma la cosa si fece dura più del previsto: troppe ragnatele, troppi sensi di vuoto..e la paura si era ingrandita, dilagava per le case, la gente oramai sussultava al minimo soffio lieve!
Il potere di chi stava nell'ombra non si arrestava... 
Il saggio intervenne di nuovo e questa volta invitò tutti quanti a sedersi con lui intorno ad un bel fuoco vivo e scoppiettante. Con parole dolci e soavi iniziò a narrar loro delle bellissime storie avvenute in epoche lontane e così narrando di terribili avventure, di gesta eroiche e di uomini vili e codardi, la Paura venne di nuovo affrontata.
La gente, che lo aveva ascoltato con moltissima concentrazione e soddisfazione, tornò alle proprie case con un passo più sicuro e senza il solito groppo sullo stomaco, un groppo che, pian piano, era sceso giù.
Quella notte ci furono sogni ambiziosi..................
Ebbene, i sogni furono portatori di nuove speranze, di memorabili azioni e di grande serenità nei cuori della gente che al mattino si svegliava contenta e con la consapevolezza di poter affrontare la giornata al meglio.
C'era una tale armonia stretta intorno... che, chiunque ne veniva avvolto, sentiva in sé la voglia di fare, creare, aiutare gli altri, insomma non si tirava indietro davanti a nulla !!! 
Per le streghette la situazione si metteva male, molto male. Possibile che le loro malvagità non ottenessero più effetto...quale portento usava quella gente?
Hai voglia di seminare ragnatele!!!!Come per magia si dissolvevano in fili d'argento! La gente li raccoglieva e ne facevano uso le donne ricamatrici!!
La paura si stava dileguando, la forza era di nuovo con le persone, i buoni sentimenti traboccavano dagli animi e la dignità di un popolo offeso, intimorito, stava guadagnando di nuovo la libertà.
Il saggio tornò di nuovo e questa volta fu lui ad ascoltare storie intorno al fuoco: per l'occasione era stato preparato un magnifico tappeto di fili d'argento interamente fatto a mano, un dono!
Infine il saggio si congedò, dicendo loro che oramai potevano cavarsela da soli: l’importante era di credere nella forza dell’unione di sentimenti, di sapersi accontentare, di sognare ...e soprattutto di non perdere mai le tracce delle loro memorie: continuare a narrare storie, tramandarle ai figli e ai figli dei figli, per non dimenticare …senza permettere a nessuno di rubare loro le menti ed i pensieri!
Con commozione la gente salutò il saggio.
Delle streghette qualcuno dice che furono viste tramutate in orribili ragni pelosi e rinchiuse nelle teche del museo, cosicché ognuno poteva sapere di quella vicenda malvagia! E l'orribile entità risprofondò nel centro della terra sopraffatta dalla forza del pensiero positivo degli abitanti della terra.
E tutti vissero felici e contenti per molti e molti anni ancor !
Francesca Barberi - Rossella Ceccarelli - De Gaetano Francesco - Lalla Tosi



" DUE FIGLIE" Racconto a più mani autori: Francesca Barberi-Milvia Di Michele-Umberto Flauto-Serenella Menichetti


DUE FIGLIE

Sono una madre criticabile e assai criticata, lo so.
Ammetto di avere la tendenza a viziare i miei figli, a dedicarmi a loro il più possibile, li vorrei tenere al riparo dalle brutte cose della vita, ma soprattutto ritengo doveroso, dal momento che sono io che li ho portati qua, che parte del mio tempo e della mia energia debbano essere impiegati per farli stare bene.

Questa premessa serve solo a spiegare perché tutte le sere accompagno Alice, la mia figlia più piccola a letto e, sebbene abbia ormai quasi 8 anni, rimango con lei finché non si addormenta. E’ un momento prezioso per noi, l’unico in cui possiamo vivere un’intimità tutta nostra, l’unico in cui lei mi sente tutta per lei, l’unico in cui io riesco a essere davvero tutta sua.
Il problema è che spesso crollo dalla stanchezza e mi addormento anch’io accanto a lei. Quando mi risveglio gli altri sono già andati tutti a letto e inevitabilmente si lamentano perché si sentono trascurati. Soprattutto mio marito.
Ieri notte è accaduta una cosa che ha dell’incredibile, che forse ha cambiato la mia vita in modo drastico e definitivo, anche se ancora non mi sono resa conto di cosa sia accaduto realmente. Forse dovrei consultare un dottore, se ancora non l’ho fatto è perché questa situazione sembra apparire sconvolgente solo a me, gli altri sono tutti tranquilli, per loro tutto sembra essere normale.
Mi ero addormentata, come al solito, accanto a mia figlia, nel suo lettino. Verso le due la posizione scomoda in cui mi trovavo mi ha fatto svegliare. Mi sono alzata stiracchiando la schiena indolenzita, ho raccolto da terra le scarpe e mi sono avviata verso le scale, per scendere al piano di sotto e terminare quella notte in modo più comodo.
Prima di uscire dalla stanza ho rimboccato le coperte alla bimba e le ho dato il consueto bacetto sulla fronte che serve a proteggerla fino al mattino.
Mentre scendevo le scale annebbiata dal gran sonno, ho sentito dal pianterreno una voce che chiamava mamma. Era la voce di Alice. Ho spalancato gli occhi e nella penombra ho visto la sua figura che saliva gli scalini nella mia direzione. Era proprio lei… ma come diavolo aveva fatto? l’avevo appena baciata nel suo letto ed ero certa che stesse dormendo profondamente.
“Mamma”, ha ripetuto la bimba, “avevo sete, mi riaccompagni a letto?”
“Certo amore”, ho risposto mascherando la mia incredulità. L’ho presa in braccio e l’ho baciata, non c’erano dubbi, era la mia piccina.
Ma quando siamo arrivate nella cameretta, il letto era già occupato da un’altra Alice, identica a quella semiaddormentata che stavo accompagnando: quella che poco prima avevo sistemato per la notte.
La bimba che tenevo per mano non ha battuto ciglio, si è sdraiata accanto all’altra e si è addormentata all’istante mentre io sempre più convinta che si trattasse di un sogno o di un acutizzarsi del mio incredibile livello di stress, chiudevo la porta alle mie spalle per dirigermi verso il mio letto.
Ero veramente stanchissima e sono crollata addormentata, per poche ore però, perché ben prima della sveglia mi ha svegliato l’inquietudine generata dal vago ricordo dello strano sogno che avevo fatto.
Sono saltata giù dal letto e mi sono precipitata nella camera di Alice dove ho trovato due biondine identiche che dormivano, come angioletti, con la testa appoggiata sullo stesso guanciale…
Forse stavo sognando... la mia Alice era solo “una”. Ero sicurissima in quell'occasione di aver partorito una sola bambina. Provai a mordermi il pollice e sentii male. Questo mi dimostrò che ero sveglia. Mi sedetti sulla poltrona a pois della cameretta di Alice. Della mia unica Alice. I miei occhi non si staccavano dal letto, anzi da sopra il cuscino color lavanda, dove erano sparsi i morbidi riccioli d'oro, appartenenti alle bellissime chiome di due bambine assolutamente identiche: una era la mia Alice. Ma l'altra? Oddio stavo diventando pazza, lasciai con lo sguardo quel tenero quadretto. E lo diressi verso lo scaffale dove la mia unica Alice teneva il suo bellissimo orso, con la speranza di vedere anche il doppio dell'orso.- Che fosse qualcosa nella mia retina che non andava?- Pensai. Niente l'orso era uno. Cocciuta, cercai la bambola con il vestito verde. Una! Solamente una. Capii allora che non erano i miei occhi a vedere doppio. Mi venne spontaneo mettermi le mani nei capelli. Poco dopo: una donna spettinata, con gli occhi sbarrati mi apparve, ed io mi spaventai molto alla sua visione.
Per poi, subito dopo, mettermi a ridere perché avevo riconosciuto in quella donna scomposta e sconvolta la mia immagine riflessa nello specchio ovale della cameretta di Alice. Come ero ridotta! Mi misi a ridere e continuai come una matta, la risata mi usciva dalle labbra stonata e un tantino isterica. Non riuscivo più a smettere.
A quel punto Alice si svegliò! Ma che dico Alice! Ambedue le Alice si svegliarono.
Si misero sedute sul letto esclamando all'unisono: - Mamma che sta succedendo!?-
La sincronia del movimento delle bambine, quella delle loro voci e quella delle loro espressioni era talmente perfetta che mi impressionò...
Le bambine vedendo il mio volto sconvolto, rimasero immobili. Ed io mi ritrovai davanti a due bocche spalancate e due occhi stupiti, che mi guardavano esterrefatte.
Allora la mia risata aumentò la sua intensità, adesso il mio riso saltellava per tutte le stanze della casa. Probabilmente un pezzo del suo suono saltellante si era propagato anche in giardino, stimolando Gino, il mio cane, a farne un'imitazione quasi perfetta.
Io non riuscivo a smettere di ridere, Gino rendendosi conto della sua bravura, continuava il concerto. E Le due Alice, ancora immobili, continuavano ad osservarmi con quell'espressione identica, di puro stupore, incollata sulle loro faccette.
Intanto gli altri dopo tutto questo baccano, si erano svegliati. Erano entrati nella stanza di Alice e adesso mi circondavano, guardandomi anch'essi con stupore e preoccupazione.
Ad un tratto la mia mente tornò a quando, da bambina, mia nonna, che mi accoglieva sempre tra le sue braccia come se io fossi un cesto di frutta di campagna pieno pieno di profumo, mi raccontava una storia di cui però non riuscivo a rammentare la fine ma ne percepivo fortemente una sorta di familiarità con il presente; una storia che ero certa di avere dentro di me e che ora tornava prepotente alla mia mente. Questa storia apriva, dentro il mio animo, una forma di compensazione psicologica e una forma di giustificazione secondo cui la mia riconosciuta saggezza non poteva essere in preda ad una allucinazione, ma solo ad una soluzione ai miei comportamenti non equilibrati rispetto ai miei figli. La storia riguardava un orsacchiotto che, gelosissimo delle attenzioni che mamma orsa dedicava al suo fratellino, abituato come era ad avere tutte, e dico tutte, le attenzioni da parte di Lei, inconsciamente, aveva creato una proiezione di sé talmente forte, una realtà incredibilmente reale, che sembrava fosse vera. La vedeva solamente lui, ma questa proiezione, questo orsacchiotto gemello, era diventato con il tempo il suo vero rifugio, il suo amichetto del cuore, il suo affetto non ricevuto, il simbolo inconscio della sua solitudine non palesata.
Intanto, i rumori attorno a me continuavano ed il cane, Gino, l’imitatore perfetto, non sembrava volersi fermare più, scodinzolando in modo forsennato quasi come se fosse l’unico, oltre me, a percepire una situazione “strana”.
Ma la mia attenzione ora era verso il ricordo di quella storia, la storia di quell’orsetto che si era “ripetuto” fisicamente per non trovarsi in uno strano vortice affettivo; in questo modo si era concesso non solo di vivere una forma di eterna felicità ma anche di combattere la sua scontrosa gelosia, vivendola in modo distaccato, vivendola senza nessuna forma di antipatia e di “piccole vendette da orsacchiotto” che, altrimenti, sarebbero state normali senza la presenza “dell’altro”. 
E io percepivo, in modo chiaro, una miriade di piccoli punti in comune con quella storia, con quella situazione, con quella naturale reazione  “delicatamente umana” anche se vissuta con i due protagonisti completamente ribaltati; nella mia situazione, infatti, ero IO che avevo creato un doppione per salvare la mia ansia e le mie mancanze affettive verso gli altri.
Ma la storiella dell’orso mi bussava dentro il cuore, prima ancora che nella testa, voleva farmi capire ..comunicarmi un messaggio che ancora non riuscivo a decodificare.
Alice..la mia Alice ora si era duplicata e, insieme a lei, si era raddoppiato il mio amore di mamma: ma l’amore è l’amore.. quando è vero è così grande che non può crescere di più: cos’era allora che mi faceva credere il contrario?
Forse si trattava solo del mio desiderio di comunicarglielo, forse era solo bisogno di dimostrarlo.
-Alice?- Chiamai la mia doppia figlia, e entrambe mi volarono tra le braccia e si accucciarono sul mio cuore.
-Amore di mamma dolce!- dissi, senza saper fare altro che stringerle entrambe- ti amerò sempre, ti amerò comunque , ti amerò qualunque forma tu prenda.. sei la mia vita, il mio fiore!-
E fu allora che le mie braccia, ad un tratto si allentarono. No, non erano state le mie braccia, ad allentarsi, io non mi ero mossa. Ero ferma immobile e stavo stringendo con tutto l'amore le due bambine bionde. Era stata una di loro, a lasciarsi scivolare fuori dal mio abbraccio: piano piano si era calata sul tappeto.
Guardai in basso, per riprendermela, ma non vidi altro che una nuvoletta di fumo disperdersi nella stanza e, nello stesso tempo percepii un bacio con lo schiocco sulla guancia destra.
-Mamma, mamma,-chiamò la mia Alice.- Mamma, mamma, -chiamarono gli altri, allora le mie braccia questa volta, si misero in movimento. Un movimento circolare. Che si ingrandiva a dismisura, per formare una grande circonferenza, un enorme cerchio d'amore, dove poteva entrare anche il resto della mia grande famiglia. E dove trovò posto, anche Gino, che si era calmato, e dava il suo buongiorno a tutti con grandi leccate.


Sono certa che nella vita, anche quando non sempre si è pronti a riceverli, arrivano dei segnali apparentemente illeggibili ma che riflettono, in modo forte, un equilibrio materno non raggiunto ma, senza dubbio, sul punto di farlo; un modo per incasellare meglio l'armonia di una famiglia, di un amore, di una gioia di vivere che una serie di simboli, creati dalla nostra mente, raccontano come una favola. A quel punto la fantasia se ne impadronisce e nasce la scenografia della storia fatta del nostro quotidiano, dei nostri affetti, dello scodinzolare di Gino o dell'orsetto dei ricordi, dove Alice diventa la protagonista inconsapevole...

NON ERA POSSIBILE Racconto a più mani autori:Daniela Bonifazi- Milvia Di Michele- Umberto Flauto- Serenella Menichetti

NON ERA POSSIBILE...


Eccolo, fermo davanti ad una vetrina, un luogo a lui molto familiare! La sua immagine, riflessa nello specchio "dimensione umana" posta aldilà del vetro di quello splendido atelier maschile che una volta lo vedeva intrigante protagonista sia come cliente, sia nelle vesti di consigliere per quegli amici che desideravano entrare nel mondo di "coloro che contano", non era sicuramente più la stessa. Ora dimostrava dieci anni di più.
Ma come poteva essere successo che in meno di un anno, un piccolo ma incredibilmente nefasto anno, quello che era l'uomo invidiato da tutti, centro di interesse maschile per il suo stile... unico... e centro di interesse femminile per il suo fascino... unico... era ridotto ad elemosinare persino il saluto del portiere dello stabile dove aveva acquistato, tempo addietro, un attico, che ora doveva velocemente mettere in vendita.
Cercava le ragioni, quelle vere, quelle che avrebbero fatto impazzire psicologi e studiosi dei comportamenti umani, quelle motivazioni che, almeno secondo i suoi carissimi ex amici, erano dipese e dipendevano da quello smisurato amore che lui aveva sempre provato verso l'unica figura che sembrava suscitare, in lui, un chiaro interesse: SE STESSO.
Cornelio era il suo nome, un nome che aveva rappresentato, già da subito, una forma di diversità; un nome sicuramente raro ma pieno di particolarità che sembravano nascondersi negli anfratti delle lettere che lo componevano.
Cornelio aveva sempre“nuotato nell’oro” ... sì, aveva sempre vissuto una bella vita all’insegna dell’abbondanza … almeno fino all’anno prima.
Non si era fatto mancare niente: bei viaggi, belle donne, bella casa. D’altra parte era già ricco di famiglia, e poi .. aveva quel lavoro particolare che svolgeva per puro caso, che glielo avevano affidato senza grandi meriti ed era molto remunerativo e prometteva anche di diventarlo sempre di più.
Già.. l’abbondanza!- Ma cosa vuol dire vivere in abbondanza?- Gli aveva chiesto fra Ginepro, che l’aveva visto crescere e che aveva l’onore di ricevere la visita di Cornelio al suo convento, ogni 14 settembre ( per via del santo di cui portava il nome)
Lui aveva sorriso compatendolo: come si fa a spiegare ad un fraticello che significa vivere nell’agio e godere dei piaceri della vita?
-Ecco- pensò a voce alta- ora dovrebbe spiegarmi fra Ginepro, come fare ad accettar di essere privato della ricchezza e del potere che dà!-
E davvero non era affatto facile per lui rinunciare ad uno stile di vita che gli era così congeniale, che pareva fatto apposta per lui …
Che disgrazia! ..Cornelio non si capacitava dell’accaduto e rimuginava continuamente sulla sua condizione attuale: non poteva essere vero. A volte pensava fosse un sogno, un incubo,dal quale si sarebbe presto svegliato. Allora avrebbe fatto una grossa risata, si sarebbe rasato e sarebbe andato a far colazione da Renato. Sfogliatella e cappuccino,le solite chiacchiere e un sorriso a Enrica la giovane cassiera. La quale sognava di sposare quell'uomo ricco e affascinante, nonostante i venti e passa anni di differenza. Spesso si trovava a Pronunciare il suo nome: Cornelio.....Cornelio. Un nome prestigioso. Scandendone le lettere come a verificarne la forza. “COR NE LIO” Un marchio, che lo contraddistingueva. Adatto alla sua personalità forte, sicura, dominante. Adesso gli pareva che anche il suono del suo nome avesse assunto una tonalità bassa. Era divenuto un nome qualsiasi. E lui, un uomo qualsiasi. Uno dei tanti. Stanco, depresso, solo. Chi l'avrebbe mai detto.
Dopo il crollo si era rivolto agli amici. Una miriade di amici, che lo idolatrava. Almeno lui, così credeva. Si era invece accorto, che gli amici non c' erano. Coloro che prima lo circondavano, gli stavano vicino, non certo per amicizia si erano volatilizzati. Nessuno di loro era rimasto ad ascoltarlo.
Anche di amiche, ne aveva avute molte: compagne, fidanzate, amanti. Pure loro, Non sparite.
Si era rivolto anche all'ultima amante: Ginevra dai bellissimi capelli corvini ed un collo che sembrava dipinto da Modigliani tanto era lungo ed elegante. Che lui amava veder ornato da preziosissimi collier, con smeraldi e rubini.
Gioielli costosissimi, che le aveva donato in svariate occasioni. Nemmeno lei si era lasciata intenerire, alla sua disperata richiesta di aiuto. A Cornelio sarebbe bastata la parure di oro e zaffiri, per far fronte ai pagamenti più impellenti. Ginevra non ne aveva voluto sapere, nonostante la promessa di Cornelio di ricomprargliela appena ne avesse avuto la possibilità...
Certo,la sua passione per il gioco gli era stata letale.
Aveva iniziato davvero “ giocando”, semplicemente per dare vita alla piattezza delle sue giornate che scorrevano brillantemente, ma luccicavano senza emozionarlo profondamente. Voleva far salire un po’ la sua adrenalina. Poi era rimasto intrappolato dentro questo mondo dorato a causa della sua sfacciata fortuna . Non erano solo i soldi facili che l’attraevano,ma la sensazione di potenza che gli cresceva dopo ogni nuova vincita.
Quando arrivava al casino tutti facevano cerchio intorno a lui,si accalcavano come facesse il suo ingresso una star.. anzi di più, perché speravano di cambiare la loro vita cercando di copiargli le giocate.
Oh! Avrebbe pagato per ricevere sempre una tale ammirazione! No, non erano solo i soldi la cosa che più gli piaceva!
In fondo non aveva avuto mai una grande autostima, il suo lavoro gli rendeva la vita piacevole e facile, ma non ne aveva gran merito, tutti sanno fare i faccendieri, avendone l’occasione e la mancanza di scrupoli!
E in questo in fondo consisteva, nel fare il faccendiere senza ave scelto neanche per chi.. che importava? Per il potente di turno.. e questo gli era bastato …. Poi la svolta...la terribile, umiliante svolta che lo aveva relegato tra "i normali", lui che si era sempre sentito speciale e baciato dalla fortuna. Ma proprio Nemesis, la dea greca dispensatrice di fortuna, lo aveva abbandonato. Aveva perduto tutto, perfino il suo prestigioso lavoro tanto remunerativo che gli consentiva addirittura lo sperpero, in un periodo di crisi conclamata che costringeva la maggior parte delle persone a lesinare con stretta economia per garantire a se stessi e alla propria famiglia una decorosa sopravvivenza. Il demone del gioco, impossessatosi di lui, non lo abbandonava ancora e Cornelio si recava al Casinò tutte le sere, elemosinando crediti dal Direttore, che lo assecondava ben sapendo che avrebbe potuto al momento opportuno "batter cassa" e riavere quanto anticipato. Sì, poiché Cornelio possedeva ancora la casa di famiglia, una magnifica costruzione situata appena fuori del centro cittadino, circondata da un giardino che, ormai abbandonato a se stesso data l'esigenza di licenziare il giardiniere, pur conservava ancora il ricordo dei suoi giorni migliori; l'interno della casa, una volta arredata con gusto e pezzi d'antiquariato e quadri di pittori famosi quali Picasso, Monet, Pizarro...era praticamente priva di tutto: le pareti spoglie, le stanze vuote. Nella sua camera da letto solo un materasso ed una coperta. Cornelio aveva venduto tutto per pagare i suoi debiti di gioco, era rimasta solo la casa. Gli "amici" bisbigliavano alle sue spalle, deridendolo. Qualcuno gongolava addirittura per la "caduta" di Cornelio, che ostentava la sua ricchezza con l'arroganza tipica dei benestanti che si credono padroni della Terra a volte, se non supportati da qualità quali l'umiltà, il rispetto per gli altri, la decenza...
Era in preda alla confusione più assoluta. C'era ancora l'attico a disposizione e sarebbe andato a vivere lì... definitivamente, sacrificando, tristemente la casa di famiglia che il suo comportamento, quello dell'uomo che non riesce a dar valore al senso delle tradizioni familiari, sembrava duramente meritare.
Non si riconosceva... aveva bisogno di qualcosa che lo facesse reagire, qualcosa che gli restituisse un senso, la voglia di venir fuori dalle avversità che lui stesso aveva creato e messo le basi. Ma come ben si sa, le cose accadono sempre mentre nessuno se lo aspetta. Era ancora di fronte a quella vetrina che continuava a rifletterlo ed a farlo profondamente riflettere quando in un angolo scorse l’immagine, anch’essa riflessa, di una sbilenca trattoria di cui, fino a qualche tempo fa, non conosceva nemmeno l'esistenza. Aveva fame, una fame nervosa ma ahimè economica. Mangiò poco e fu la fortuna di un piccolo gattino che divorò i resti della sua cena, immangiabile per lui ma una leccornia per il vispissimo felino; improvvisamente una voce ruppe il silenzio rumoroso dei suoi ragionamenti, una voce dal tono vagamente familiare che esclamava... "Cornelio? Ma sei tu?".
Incredibile, era Ascanio, il suo inseparabile compagno di banco del Liceo che lo aveva riconosciuto; una volta loro due erano "una sola cosa", uniti come erano a difendersi da coloro che cercavano in tutti i modi di ridicolizzarli per i loro nomi, non certo comuni, ma pieni di punti di gioco lessicale e di eccentrici paragoni storici. Ascanio era felicissimo di averlo ritrovato, e ricordava di quando il suo magnanimo amico gli aveva prestato una apparente piccola cifra, ricavata da tre lucenti lingotti d'oro che la nonna paterna aveva donato a Cornelio prima di morire. Ebbene Cornelio non aveva avuto dubbi ed affinché lui, Ascanio, il suo migliore amico, figlio di modestissimi artigiani di provincia, potesse veder realizzato il sogno di andare a Londra a studiare per diventare qualcuno, glieli aveva prestati con la classica frase "Quando avrai fatto fortuna, me li renderai..." Ascanio ora era lì ed aveva fatto fortuna, e quei lingotti erano diventati tanti che neanche lui riusciva a contarli. Aveva studiato a Londra ed era diventato uno dei più importanti conoscitori dei Titoli azionari mondiali, ma del resto già da piccolo era definito da tutti il mago della compravendita. Ora era lì pronto a restituire quello che quel patto tra ragazzi aveva sancito.
Cornelio ed Ascanio iniziarono a parlarsi, a raccontarsi, a spiegarsi come la vita spesso sa trovare i suoi equilibri guidando gli uomini nelle loro azioni e regalando, a chi nella propria vita ha saputo regalare, una possibilità di venir fuori dai propri errori o dalle proprie condizioni di vita non sempre felici.
Cornelio ed Ascanio ora sono soci, soci di una importantissima ditta di Strategia di Investimento e la loro amicizia ha saputo risanare le debolezze di Cornelio, mentre le radici semplici, quelle che provengono dalla povertà e dalla sofferenza, hanno permesso il far rifiorire ciò che sembrava oramai arido e senza vita.

"Crescendo musicale" racconto a più mani di Fata Scrittrice Di Fiabe- Stefania Galleschi- Milvia Di michele



Crescendo musicale
Prima di tutto fatemi mettere le mani avanti: non è che io sia un'intenditrice, per la musica ho sempre avuto passione, devo averla ereditata dal mio papà, buonanima, che cantava le canzoni dei Giganti mentre liberava i canarini dalle gabbie. I canarini si erano abituati a sentir cantare 'Proposta'  o 'Mettete dei fiori nei vostri cannoni' e allora volavano via dalle gabbie.
Quando fu il mio tempo per la musica mi mancò la volontà e la passione per le note e poi  a ventuno anni già mi impiegavo e a ventitrè mi sono sposata.
Da quando sono in pensione il tempo non mi manca, ascolto alla radio le canzoni dell'Equipe 84 e mi concedo il lusso di un abbonamento ai concerti.
Ma non dell'Equipe, il complesso non esiste più.
Ma cominciamo con calma tutta la storia.
Avevo una quindicina d'anni ed ero sempre innamorata. Mi accontentavo di guardare l'amore mio di turno, da lontano, vederlo con gli amici sotto il balcone di casa mia che si affacciava sulla piazzetta dove c'era la fermata dell'autobus che portava in città, e.. sperare che mi guardasse ogni tanto.
Quella volta ero innamorata di Sergio, l'americano, figlio di paesani emigrati a Toronto una ventina di anni prima e venuto con i genitori a far vacanza al paesello natio... dal Canada!
Proprio un americano: ciuffo americano, accento americano, vestiti americani.
Aveva legato subito con i suoi coetanei, era dolcissimo e non si accorgeva d'essere preso continuamente in giro, ma affettuosamente, dai ragazzotti locali.
Io, che mi trovavo nel mio periodo di letture " tritatutto" : Salgari, Delly, Grand-Hotel, Capitan Miki e sognavo una qualsiasi evasione dal mio mondo contadino, m'innamorai prima della sua provenienza, poi di lui
Ah! Le cascate del Niagara! Lui raccontava che s'era stufato di andarci...
L'americano sembrava proprio l'immagine di Little Tony, ma non era così bello né sapeva cantare. Io ero sognatrice come Salgari, che ha descritto l'India senza esserci stato e i sogni allora venivano dagli attori americani, e tutti noi eravamo le copie dei divi di Holliwood : sigaretta in bocca, pantaloni scampanati, urli mentre cantavamo, pianisti di piano bar che di giorno facevano i camionisti.
Sergio però era davvero nato a Toronto e per questo mi affascinava da morire. Parlava un dialetto abruzzese misto all'americano, non era molto alto, ma aveva la mascella forte che , in quel periodo, mi piaceva molto.
Il sabato sera, al paese si ballava sempre nella casa di Eugenio, il comunista, che ci metteva a disposizione la " sala" e poi andava alle sue riunioni a fare le " chiacchiere morte", diceva ironicamente sua madre.
I nostri balli erano niente affatto romantici : twist, hully-gully..un po' di rock and roll, solo qualche lento. Si sudava e si rideva mentre dalla cucina vicina ci spiavano gli anziani, dai trenta anni in su; una decina di persone vicino al fuoco a far 'pettele'!
Io ero la più piccola del  gruppo,  andavo a ballare rubando il permesso a mia madre. Le dicevo:- Io vado!- e lei - No... io dico di no..come fai?-  Ed  io:-  Così!- e aprivo la porta e fuggivo via ridendo, lasciando mamma a ridere pure lei: sapeva che era impossibile tenermi, io adoravo ballare!
Il ballo era allora l'unica vera festa nel piccolo paese, l'occasione di incontro che segnava il tempo della crescita. A mano amano che crescevo il ballo era diventato qualcosa di diverso. Prima si ballava con le amiche e si avevano le calzette corte e poi, a mano a mano, si sentiva il respiro di chi si apprestava a diventare uomo. Un abbraccio bastava per far arrossire e l'incontro di corpi timidi e sconosciuti generava l'inizio del sogno.
Anche quel giorno corsi verso il ballo. Stranamente, erano assenti i soliti 'guardiani' rintanati in cucina. Erano andati a trovare una vicina tornata dall’ospedale, dove era stata ricoverata per operarsi la cistifellea e, come sempre, erano andati in gruppo portando il solito pacchetto incartato di zucchero e caffè ( ma quanto caffè bevono i malati ?)
E il ballo fu più allegro e libero per tutti. Venne anche l’americano, che conosceva pure qualche parolina di francese.
Ad un tratto dal giradischi partì una bella musica lenta, che mi pareva romantica, se non fosse per certi sospiri che non sapevo spiegarmi. Sergio si avvicinò e m’invitò a ballare dicendomi: " Ti piace questo disco?"
Ed io: "Molto dolce ..un po’ noioso, forse!"
Scoppiò a ridere. Fu forse l’unica volta in cui, invece che essere preso in giro, poteva essere lui a farsi gioco di qualcuno...ma non lo fece, smise subito la sua risata e aggiunse: "Sciocchina, si vede proprio che sei ancora piccola!"
Sergio sapeva che ero ingenua e credulona ma che non ero la solita ragazza di paese da abbordare e portare nel primo fienile. Mi disse che avevo negli occhi quello strano fascino della malinconia che vuole uscire da sè. Era vero, grazie alle riviste avevo imparato a conoscere  il mondo fuori dal mio paese e, per me, quel ragazzo rappresentava lo straniero che, con una nave, avrebbe potuto portarmi via da lì: liberarmi della piccola gente di paese che vive di poche cose.
Nella nostra realtà quello era ed e' il sogno di ogni ragazza.
Il ballo dava a noi due un tempo e il tempo sembrava fermarsi in quell'attimo.
"Tu senti molto, col corpo, il ritmo della musica"- mi disse lui
"E’ la musica che mi fa muovere, non sono io, lei mi muove- dissi sovrappensiero- è troppo bella la musica!-
Poi restammo in silenzio ascoltando ' je t’aime..mois non plus'.
Oggi conosco il significato di quelle parole … ma non allora, meno male!
Ci svegliò un bel twist, io ero una maestra con le piroette e mi buttai a capofitto nel gruppo.
Allora, nel je t'aime sentivo sì un fremito, quella cantante però era così magra che non mi faceva pensare a nulla di male. Ma la musica passava il corpo e i lenti erano sensazioni mai provate. Pensandoci adesso il nostro silenzio era vibrazione nuova e io sentivo che non era solo la musica che mi faceva muovere. Mi staccai sollevata e mi buttai nel ballo veloce. Fu allora che mi accorsi che tutti mi guardavano e commentavano:
"E' proprio una bella ragazza e non sembra del nostro paese, sembra una di città. Vedrete che troverà qualcuno che ce la porterà via."
E, infatti, me ne andai. Passò solo qualche altro anno, appena preso il diploma, lasciai il paesello, non rapita da un ragazzo: io inseguivo un sogno...il sogno di diventare una ballerina, non di danza classica,  anche se quel tipo di danza mi incantava, ma ormai l'età non me lo avrebbe più consentito: ma volevo diventare una ballerina! Fu così che andai a Roma, il giorno lavoravo e la sera cominciai a frequentare un corso di ballo. Ero brava, sensuale al punto giusto, tutti lo dicevano ed io ero felicissima e volavo....volavo e...sognavo. Sempre ho amato sognare. Mi vedevo sui più importanti palcoscenici del mondo e con me c'era sempre accanto lo stesso uomo, eh sì mi ero di nuovo innamorata. Era il mio maestro di ballo! Ma amavo lui o..la sua arte? 
Un bellissimo giorno mi capitò una grande occasione. Durante il saggio che la mia scuola di ballo organizzava a conclusione del corso, per caso,  mi vide ballare un noto scopritore di talenti che mi volle in un suo spettacolo per una scena particolare.
Io avevo, secondo lui, un modo di ballare che si sposava bene col suono del violino e lui mi chiedeva di ballare vestita di veli dorati leggeri, mentre un violinista russo suonava una musica struggente. Si trattava d’impersonare l’autunno: lui con le sue note, io con i miei volteggi.
Fu magnifico. Il suono del violino era una voce, un pianto, un tramonto, un addio.
Io a passi di danza vivevo la sua musica, piangevo con le sue note tristi che raccontavano di foglie secche che ormai senza vita cadevano leggere fino al suolo dove andavano a marcire.
Ma quel “ morire” mi metteva uno strano desiderio di tornare a casa, di recuperare gli affetti lontani, della mia famiglia, del “ comunista Eugenio”, che quando ero partita aveva voluto accompagnarmi alla stazione con il suo macinino per dirmi : "Vai, fai le tue esperienze, ma sappi che io ti aspetterò, che per me sei speciale"
Mi aveva detto così e poi era rimato in silenzio, senza darmi nemmeno un bacio sulla guancia.
Sì mi piaceva il mio maestro di danza, ma sapevo che sarebbe finita: quello era un amore legato alla nostra passione per i ballo, a casa avevo lasciato altro! 
Eugenio infatti diventatava rosso di emozione quando mi vedeva e pendeva dai miei versi.
Sapeva che il ballo nella vita non è tutto e si sforzava di ballare l'esistenza per compiacermi.
"Tu sai ballare con le parole, intrecci i passi del mio sogno" le aveva scritto ma era tanto onesto da dire che la frase apparteneva a un poeta che aveva trovato su di un libro, in biblioteca.
Eugenio sapeva che al loro paese nessuna gatta cieca mangiava i figli appen nati, la cassa con lafarina di castagne pressata, il lume a petrolio, la scala di legno che scricchioava a piedi scalzi, i giochi sulla piazza di sera, il gabinetto nell'orto, le fette di pane con l'olio..
Quando tornai Lui era li ad attendermi, alla stazione.
Gli volai tra le braccia... ed Eugenio capì che la ragazzina era cresciuta.
Ma io sono ancora quella ragazzina, cambiata solo nell'aspetto..e tu, ora mi chiedi, bimba mia di lasciarti andare. So cosa provi, ricordo bene quello che sentivo, è giusto così, tu hai il tuo sogno ed io sapevo che questo momento sarebbe arrivato. Ma ricordati: questa casa sarà sempre la tua casa, in qualsiasi momento ti verrà nostalgia... tu torna! Ora danza la tua vita!
Ridi, e mi dici: "Mamma io vado a studiare musica!"
Ed io ripenso al suono di un violino...
Fata Scrittrice Di Fiabe- Stefania Galleschi- Milvia Di michele



"La favola Piccolissima" di Sergio Milano-Olga Povelato-Margherita Salvatore-Lalla Tosi


La favola piccolissima
C'era una volta un re,
venne la notte, venne il giorno, venne il sole, era splendente.
La principessa Rosafresca affacciatasi alla finestra fu bagnata dalla pioggia e dormì per 178 anni.
Il re pianse e aspettò...
Aspettò pazientemente
ma non accadeva un bel niente
ed allora si indignò
e a protestare cominciò
....Riaspettò paziente,
ma non successe niente.
alla fine il re comprese...
doveva entrar nei sogni di lei con passo cortese.
E vi entro'
...piano piano accanto a Lei s'inginocchio'
e scopri'che mai si eran lasciati,
perche'i sogni non son mai addormentati.
I due cuori rimasero sempre vicini, mai si allontanarono uno dall'altro
innamorati per l'eternità
addormentati dalla confusione della città.
Il bel principe svegliò la sua amata con un bacio scintillante e dirompente,
la bella principessa Rosafresca finalmente
guardò oltre gli occhi del suo amato
e vide il cuore da sempre innamorato......
Sergio Milano-Lalla Tosi-Olga Povelato-Margherita Salvatore


Racconto di Daniela Bonifazi: "Il pozzo dei desideri"



Il pozzo dei desideri
Le lacrime scorrevano copiose sul volto di Benjamin, insensibile al freddo vento del nord che penetrava persino la pesante giacca di fustagno marrone; le raffiche, come spilli di ghiaccio, pungevano la pelle del ragazzo, che incurante proseguiva il cammino sulla via della speranza. Da soli due giorni aveva lasciato il villaggio, dove viveva con la sua famiglia e tutti gli altri membri della tribù Cherokee. Due giorni per ricordare le storie che l’ormai anziano capo raccontava attorno ad un grande falò. Egli narrava di tempi felici, quando la sua gente abitava in numerose città circondate da splendidi campi seminati e da frutteti. Erano noti come il “Popolo del vecchio tabacco”, poiché era loro usanza coltivare appunto la pianta del tabacco, che veniva poi bruciato nel corso di cerimonie sacre. Il vecchio parlava…parlava con voce roca, spesso rotta dalla fatica; egli ricordava la tradizione, che voleva il cannello attraverso cui passava il fumo fatto con legno di frassino bianco,a simboleggiare gli uomini, mentre il fornello, fatto comunemente di pietra, rappresentava la madre Terra. Il popolo Cherokee costruiva fornelli con una sorta di terracotta. A Benjamin venne in mente la prima volta che fu ammesso ad ascoltare le storie ed il suo corpo fu scosso da un tremito, lo stesso che provò quando il capo iniziò a parlare; non riusciva a credere di poter sedere con gli altri membri della tribù. Finalmente si sentiva un vero Cherokee a tutti gli effetti. Il suo petto si gonfiò d’orgoglio al ricordo, ma poi rammentò anche la voce dell’anziano rotta dall’emozione mentre narrava di quando il suo popolo fu costretto a trasferirsi nel Territorio indiano dell’Oklahoma con una terribile marcia ancora nota come la “Pista delle lacrime”. Molti membri della tribù perirono durante l’estenuante viaggio. Benjamin distolse quei tristi pensieri e si concentrò sulla sua missione. Era assolutamente indispensabile che egli trovasse il Sacro bosco, all’interno del quale si celava il Pozzo dei desideri. Chiunque fosse riuscito a scovarlo avrebbe potuto realizzare un solo desiderio, purchè riferito ad un nobilissimo scopo. E quale scopo avrebbe potuto essere più nobile se non quello di salvare le memorie dell'anziano capo Utahaque, che narravano le più straordinarie vicende legate al popolo Cherokee? Pagine e pagine di vita vissuta, leggende, rituali sacri, testimonianze dei soprusi subiti ad opera dell'uomo bianco; pagine riunite in un grande libro con la copertina in pelle di bufalo. Dopo la morte di Utahaque il libro si era tramandato di generazione in generazione, fino ad essere custodito da Guanuguaca, un giovane ormai corrotto dal desiderio di denaro. I valori che per secoli avevano tenuto in vita la cultura e la saggezza dei Cherokee in lui sembravano essersi perduti. Egli aveva deciso di vendere il prezioso libro ad una famosa casa editrice in cambio di una cospicua somma. Non v'era più traccia nel giovane della fierezza della sua stirpe e le preghiere di Benjamin e di molti altri non servirono a far desistere Guanuguaca dal suo proposito. Egli nascose il libro in un posto segreto e inaccessibile a tutti fuorchè a lui, in attesa di essere contattato e procedere con le trattative economiche per la cessione di tutti i diritti sul volume. Benjamin e gli altri membri della popolazione Cherokee superstite si riunirono per escogitare un modo che permettesse loro di non dare in pasto al pubblico le storie segrete del loro grande popolo. Ma come riuscirci? L'impresa non si presentava affatto facile, finchè ad un anziano del gruppo tornò alla memoria l'esistenza di un pozzo speciale, situato nel grande e maestoso Sacro Bosco. Egli ricordò che vi si era recato con il potente stregone o uomo medicina come era definito, Canosaqui, quando una terribile pestilenza aveva colpito il loro villaggio. Ricordò anche la formula magica che avrebbe permesso al coraggioso volontario di poter recuperare il libro e metterlo al sicuro dalle mire di Guanuguaca. Fu così che Benjamin si accollò l'onere di tale impresa e partì al più presto alla ricerca del Sacro Bosco, il cui accesso si sarebbe rivelato solo ad un cuore puro e ispirato da nobili sentimenti. Altri giorni trascorsero e il giovane, superato lo scoramento iniziale, trovò la forza di andare avanti, nonostante alcun segno gli indicasse la via che lo avrebbe condotto all'accesso del Bosco. Una sera Benjamin si accasciò esausto dopo una lunga giornata, durante la quale non si era fermato neanche per rifocillarsi, tanta era la voglia di portare a termine la sua importante missione; chiuse gli occhi, la schiena appoggiata ad una quercia secolare dal tronco immenso, il capo reclinato in avanti e gli occhi persi nel nulla. Improvvisamente sentì il vuoto dietro di sè e fu come risucchiato da un vortice che lo trascinò a lungo, finchè si ritrovò in un posto al di fuori di ogni immaginazione: alberi altissimi ed una fitta vegetazione lo circondavano, la luce lunare filtrava attraverso le fronde creando un effetto così affascinante che il giovane ne fu rapito. Rimase immobile, incerto sul da fa farsi. "Oh...grande Spirito...dammi un segno della tua grandezza, fa' ch'io possa adempiere al mio compito ti prego...indicami la via"! D'un tratto la luce della bianca Luna si concentrò in un punto preciso, scoprendo un varco tra i fitti cespugli.
Benjamin non indugiò un istante e, pieno di speranza e fiducia, avanzò ed oltrepassò il passaggio. Incredibile! Al di là del varco un pozzo di grandi dimensioni apparve, illuminato pienamente dai raggi del fulgido astro. L'emozione colse il ragazzo, che si avvicinò con gli occhi umidi ed il cuore che batteva forte. Toccò con entrambe le mani il bordo del pozzo e si sporse a guardare l'interno; sentì un intenso odore di muschio e vide l'acqua che rispecchiava il suo volto. Fu allora che il livello salì e salì e salì, fino a raggiungere l'apice del pozzo stesso. E Benjamin fu pronto...sapeva cosa doveva fare e dire. Immerse le mani nelle fresche acque e pronunciò la magica formula. Fu allora che l'acqua prese vita, prima scese nuovamente e poi s'innalzò vorticando. Quando raggiunse di nuovo il giovane, al centro un libro in pelle comparve e librandosi nell'aria si posò sulle palme aperte di Benjamin, che lo portò al petto, come a proteggerlo. Fu un attimo...tutto intorno a lui si oscurò ed egli si ritrovò esattamente dove si trovava...chissà quanto tempo prima, cioè appoggiato alla grande quercia. Si alzò, ancora incredulo...Era tutto vero? O era stato solo un sogno? Poi abbassò lo sguardo e vide il prezioso libro del grande capo Utahaque tra le sue mani. Una irrefrenabile gioia lo pervase e, preso dall'euforia, insensibile ormai alla stanchezza, prese la via del ritorno. Il libro sarebbe ritornato dal grande capo Cherokee, accanto al suo spirito nel cimitero indiano che conservava le spoglie di Utahaque, che nessuno avrebbe potuto violare. Nulla è più importante delle origini, della storia di un grande popolo. "Grazie...grande Spirito"! Benjamin sorrise!
Daniela Bonifazi


FAVOLETTA MINIMA di Serenella Menichetti e Milvia Di Michele " UNA BUONA NOTIZIA"





                                                                                               


UNA BUONA NOTIZIA




Poco ma poco tempo fa, l'ennesima e ultima foglia cadde dall'albero di ciliegio, che rimase con la chioma completamente spoglia. Albertino lo guardò dispiaciuto. Poi disse a babbo Paolo: - Hai visto babbo, anche l'albero adesso è calvo, proprio come te. Il babbo sorrise.
Albertino, il giorno seguente a scuola, apprese molte notizie dalla lezione sugli alberi, che la sua maestra aveva tenuto quella mattina in classe.
Quando tornò a casa era così felice che il sorriso gli partiva dall'orecchio sinistro per poi finire al destro e viceversa.
- Babbo ti devo dare una bella notizia. disse con voce squillante, rivolgendosi al genitore. -Da oggi non dovrai essere più triste per la tua calvizie- continuò Albertino con gli occhi scintillanti di felicità.
Perché? Chiese Babbo Paolo curioso. - Perchè a primavera avrai la tua chioma più folta di prima- Tranquillo me l'ha detto la maestra, concluse Albertino.


Il babbo Paolo esclamò:- la mia primavera sei tu figlio mio, e infatti: vedi quant’è bella la tua chioma? Folta e gagliarda!-
-Oh babbo! Ma e la mamma?.. Lei ha i capelli belli belli?-
-La tu mamma è un sempreverde!- fu la brillante risposta – E mi raccomando, domani fattelo spiegare dalla tua maestra ..cos’è un sempreverde!-



"Favoletta Minima" di Sergio Milano - Elisa Tomassi


La Famiglia Tiramisù disegno di Sergio Milano


C'era una volta, ai tempi dei gatti parlanti, un paese di pastafrolla dove regnava Re Savoiardo sposato con la principessa Pan di Spagna; dalla loro unione nacquero 42 Frollini. Un brutto giorno d'inverno piovve così tanto caffè che Re Savoiardo, la consorte e i Frollini, si inzupparono al punto da beccarsi un raffreddore; fu convocato il medico di corte dottor Mascarpone e mentre erano tutti riuniti nel teglione, nacque Tiramisù. 
Il principino, curioso del mondo, lo visitò in lungo e in largo. Un giorno, stanco, si fermò nella favolosa città di Tavola Imbandita. Lì conobbe la duchessa Pasta al Pesto, dal profumo inebriante, col figlio, duchino Parmigiano Reggiano, il conte Pollo allo Spiedo, dal carattere ruspante e caloroso, la ricca marchesa Insalatona Mista. A fine serata il Principino Tiramisu' rimase incantato dall'affascinante Principessa Panna Montata; il matrimonio fu celebrato qualche tempo dopo nel reame di Frigorifero, dove vissero felici e contenti. 

Sergio Milano - Elisa Tomassi

"IL TORRENTE CHEBELLO" di Daniela Bonifazi - Francesco De Gaetano - Milvia Di Michele - Maurizia Zucchetti



IL TORRENTE CHEBELLO
Questa fiaba si è classificata 8° al primo concorso letterario nazionale a cui il gruppo ha partecipato

 "Una fiaba per Basiano" con tema "Il volontariato"
Non molto tempo fa, in un piccolo paesello abbarbicato su un costone della montagna, viveva una famigliola come tante: papà, mamma e quattro bambini, due femminucce e due maschietti. Il più grande, Francesco, aveva undici anni, poi Milvia dieci, Stefano nove e la più piccola, Lalla, di otto. La vita scorreva tranquilla e serena in quel paesello. Il papà e la mamma si dedicavano al piccolo orto e all’allevamento di una decina di pecore per la lana e il latte, oltre a qualche gallina. Più o meno le stesse occupazioni degli altri abitanti, qualcuno era anche boscaiolo, ma la maggior parte era dedita alla pastorizia e all’ agricoltura. Di fianco al paese scorreva il torrente Chebello. Tra rocce e muschi scendeva gorgogliando verso valle tra mille cascate spumeggianti.
Un giorno, all’inizio dell’autunno, il tempo si mise al brutto e iniziò a piovere ininterrottamente per giorni e giorni. Il freddo pungeva le ossa, gli animali erano rinchiusi nelle stalle e negli ovili. Gli abitanti non osavano uscire e trascorrevano le giornate al dolce tepore del fuoco emanato dai camini, dedicandosi alle occupazioni consuete nel periodo che preludeva al periodo più freddo dell’anno, cioè facendo cesti, intagliando il legno che prendeva le forme più originali, cucendo o cardando la lana.
I quattro fratellini una mattina uscirono di casa, dato il miglioramento delle condizioni atmosferiche,  per comprare il pane e svolgere altre commissioni affidate loro dalla mamma. Quando però attraversarono il ponticello sul torrente Chebello rimasero stupiti per come esso fosse cambiato. Era aumentato di volume, le cascatelle non si vedevano più e l’acqua iniziava a salire sempre più, minacciando di fuoriuscire dagli argini. D’improvviso ricominciò a piovere, così Francesco e Milvia presero per mano Stefano e Lalla e attraversarono di corsa il ponte, spaventati da quell’insolita e preoccupante situazione.
Giunti in paese trovarono tutti gli abitanti in piazza, allertati dal suono delle campane della chiesetta del piccolo paese, cosa che accadeva solo in caso di un pericolo imminente. Il parroco, don Sergio, dall'alto della scalinata stava parlando alla popolazione, accorsa da ogni parte. Purtroppo la casetta della famiglia di Milvia e Francesco distava troppo dal paese e nessuno aveva sentito il suono delle campane.
-" Miei cari parrocchiani - stava dicendo don Sergio - la pioggia ci ha concesso solo una breve tregua, non accenna a cessare ed il torrente sta per straripare. So che nessuno di voi ha dimenticato la terribile alluvione di dieci anni orsono. Fu una vera tragedia, molti morirono, altri rimasero senza casa e le coltivazioni furono distrutte, ricordate"?
L'anziano Tommaso, sorretto dal suo fedele bastone, disse:" Nessuno ha dimenticato, padre, nessuno... - e chinò il capo chiudendo gli stanchi occhi, che avevano visto scomparire nel fango i suoi adorati nipotini, inghiottiti dalla piena.
Francesco e Milvia si guardarono e – “Mio Dio! - dissero all'unisono - la nostra casa”!
L'anziano Tommaso li guardò preoccupato – “Non avete sentito il suono delle campane”? - chiese con ansia.
Milvia e Francesco fecero un cenno di diniego, erano sgomenti, i loro sguardi chiedevano aiuto. Non c’era bisogno di parole…
-“Calma! - disse Tommaso - Niente panico! Piuttosto organizziamoci! Per niente al mondo permetterò che accada di nuovo quel che i miei poveri occhi hanno già visto dieci anni fa!
Tanto per cominciare voi piccoli resterete qui, al sicuro, in parrocchia con don Sergio e gli altri ragazzi del paese. Tra poco verrò anch'io e mi unirò agli anziani. Gli uomini giovani e forti sono col Sindaco, per pianificare gli interventi necessari a salvare il paese e soprattutto per avvisare le famiglie che, come la vostra, non hanno udito l'allarme. State tranquilli ragazzi, i vostri genitori presto saranno al sicuro. Su, su...andate"!
I quattro fratellini però non si davano pace: pensarono a mamma e a papà, rimasti lassù nella loro casetta al di là del torrente che si ingrossava d'acqua fangosa a vista d'occhio...bisognava avvisarli al più presto, non c'era tempo da perdere!
La pioggia aumentava e sferzate d'acqua soffiate dal vento che rafforzava non promettevano nulla di buono. Rivoli impazziti scorrevano tra i ciottoli delle viuzze del paese. Il cielo plumbeo e i monti che mostravano frane e smottamenti facevano da scenografia al paesello; la vallata faceva da cassa risonante e l'eco dei sinistri suoni del "maltempo arrabbiato" faceva venire i brividi a tutti. Francesco e Milvia, si guardarono cercando l’uno nello sguardo dell'altra una rassicurazione; Stefano e Lalla, infreddoliti e spauriti, iniziarono a piagnucolare. I due più grandicelli, tenendo ben stretta la manina dei fratellini, che non avevano lasciato un solo momento, cercarono di rassicurarli benché anche loro avvertissero una grande angoscia. Francesco si sentiva responsabile dei fratelli, era il più grande e sapeva che i suoi genitori contavano su di lui. In quella situazione così difficile era però spaesato e combattuto tra il dover avvisare i genitori e il proteggere i più piccoli. Che fare? Mentre pensava volse lo sguardo attorno, in cerca di aiuto e attenzione...decise che non poteva indugiare e aspettare che il Consiglio Comunale terminasse. Milvia e lui stesso avevano visto coi loro occhi l'aspetto minaccioso del torrente Chebello, che in quel momento di bello non aveva proprio nulla!
-"Shhhhh, Milvia, vieni...seguimi senza farti notare - sussurrò Francesco”.
La bambina lo seguì fino all'ingresso della sala parrocchiale dove il fratello le disse che spettava a lui avvisare i loro genitori.
-"Se mi cercano, tu di' che sono uscito un attimo a cercare una cosa che ho perduto e che tornerò presto". Poi "sgattaiolò" via alla chetichella, riprendendo il sentiero che conduceva alla sua casa.
Quando fu di nuovo nei pressi del torrente, si rese conto che ormai la piena aveva oltrepassato gli argini e che era impossibile attraversare il ponticello. Si sentì perduto e non sapendo cosa fare fu preso dalla disperazione e i suoi occhi si riempirono di lacrime.
Ad un tratto, di fronte a lui, come una visione, apparvero le sagome di due uomini vestiti d'arancione luminoso, talmente luminoso che, nonostante il grigio del cielo e la pioggia, sembrava emanassero luce propria. "Ho paura Francesco!  - sussurrò Milvia che nel frattempo aveva raggiunto il fratello per essere anche lei di aiuto - Chi sono quei due”?
Francesco non sapeva cosa rispondere e continuava a guardare con timore le due figure che si avvicinavano ma… incredibile! Man mano che avanzavano le figure sembravano moltiplicarsi. Da due a quattro, otto, sedici e così via. Tutte vestite d'arancio luminoso e i loro volti tutti uguali, come se non avessero lineamenti, ma guardandoli meglio era come ammirare il viso sereno e radioso degli angeli, come quelli dipinti in chiesa negli affreschi. Due delle figure raggiunsero i bimbi e senza incutere loro alcun timore li sollevarono in braccio portandoli al sicuro mentre le altre si adoperavano per arginare il torrente Chebello e riuscirono in breve tempo a impedire l'esondazione. Dopo di che Francesco e Milvia assistettero a quello che sembrò loro un miracolo: papà e mamma correvano verso di loro lungo il sentiero e sul ponte che ormai non faceva più paura. Insieme tornarono al paese dove videro altre figure come quelle che avevano incontrato poco prima; stavano lavorando per proteggere le case, portare in salvo le persone che erano salite sui tetti per evitare di essere trascinate via dalla piena, scavare canaletti di scolo per far defluire l’acqua…Lavorarono alacremente e senza posa, incuranti delle avverse condizioni e della stanchezza. Finalmente la pioggia cessò del tutto e ben presto, grazie all’intervento degli angeli in arancione, la situazione stava rapidamente tornando alla normalità.
Passarono alcuni giorni e il sole tornò a splendere, delle strane figure arancioni non v'era più traccia. La domenica, alla messa solenne, celebrata per ringraziare il Signore dello scampato pericolo, il Parroco all'omelia disse, guardando tutti i paesani riuniti: “Avete visto figlioli? Il Signore ci ha inviato i suoi Angeli per aiutarci nel momento del bisogno. Sia lode a Lui e a quelle anime pure che ci hanno salvato”! Un'esclamazione di gioia scaturì dai fedeli riuniti,  ed un applauso senza fine coronò quella giornata memorabile.
Forse vi sembrerà fantastica questa storia, ma non c’è nulla di più realistico: quegli Angeli sono rimasti tra noi, compaiono quando c’è bisogno di loro: sono i Volontari che ci aiutano quando eventi straordinari ci colpiscono, come le alluvioni, appunto, o i terremoti, oppure ancora le frane e gli smottamenti, le eruzioni che minacciano i paesi sottostanti i vulcani attivi... Rispettarli, aiutarli e se possibile unirsi a loro è nostro dovere. Sono uomini come noi, eppure si comportano come angeli custodi… angeli senza le ali, ma con un cuore grande grande!


Daniela Bonifazi - Francesco De Gaetano - Milvia Di Michele - Maurizia Zucchetti